King Kong è tra noi!
Quella che state per leggere, per gentile concessione di Franco Tassi che la ricevette direttamente dall'autore, è il risultato dell'ultima ricerca sul campo condotta da Bernard Heuvelmans. Si tratta di tre mesi passati tra foreste ancora incontaminate alla ricerca di indizi che confermassero l'esistenza di creature a cui "diede la caccia" per gran parte della sua vita.
In puro "stile Heuvelmans" si tratta di una lettura davvero avvincente, che sono certo non mancherà di appassionarvi e divertirvi. Ma è anche un articolo sempre in bilico tra scienza e pseudoscienza, tra zoologia e folklore, la cui linea di demarcazione, il padre della criptozoologia non sempre riusciva a distinguere, ma forse sarebbe meglio dire "ad accettare".
Non mi dilungherò oltre nel sottolineare gli aspetti improbabili del tutto, per questo ci sono i seguenti articoli: qui e qui.
Per una volta sospendiamo un poco l'incredulità e godiamoci la lettura di quello straordinario sognatore, zoologo e uomo di cultura che era Bernard Heuvelmans...
Un "supergorilla" alto tre metri si aggira nelle giungle di Johor e Panang, nella Malesia peninsulare. Ho incontrato persone che lo hanno visto e perfino toccato. La sua più verosimile identificazione è quella di Gigantopithecus, il più grande primate conosciuto, che viveva circa mezzo milione d'anni fa nella Cina meridionale e si ritiene estinto da appena 200.000* anni.
Ciò non mi suona nuovo. Da più di quarant'anni, ormai, faccio ricerche su questa scimmia gigante, chiamata localmente con diversi nomi, ma più comunemente con quello di Jarang Gigi, cioè 'denti distanziati'. Si tratta probabilmente di un'allusione ai quattro canini visibili nella bocca semiaperta dei grandi antropoidi. Un aborigeno Jakun di 40 anni, Talib bin Lehman, boscaiolo nel villaggio di Bukit Serdang (Johor), me lo confermò: "Dia punia taring dua di atas dan dua di bawas" (Ha due canini sopra e due sotto).
Due anni prima di quest'episodio, una corrispondente di Singapore, la signorina Lee Teng Tee, mi aveva avvertito della presenza di gigantesche impronte di piedi – lunghe da 37 a 45 cm – da lei scoperte nella giungla che costeggia la strada che porta da Mersing a Endau, nel Johor. Giudicai la cosa interessante, tanto più che in un'altra occasione, ma nella stessa zona, alla signorina Lee era capitato di scendere dall'auto per esaminare un insolito ruscello che scorreva nella giungla, e udire un animale aprirsi il cammino nel sottobosco dall'altro lato della pista. Avvicinatasi alla fonte del rumore, aveva avuto la sorpresa di vedere un piccolo sasso cadere ai suoi piedi, una prima e una seconda volta. Per lanciare un sasso bisogna avere delle mani! La signorina Lee si era dunque immobilizzata davanti al posto da cui provenivano i sassi. Allora s'era levato un tremendo ruggito, ancor più potente di quelli di cui è capace Pavarotti. Questo l'aveva terrorizzata al punto da farla fuggire, e con lei il suo autista. Tremava ancora al solo ricordo dell'episodio o alla vista delle foto scattate l'indomani sul posto, che mi mandava.
Dopo uno scambio di corrispondenza durato due anni, ho voluto sincerarmi di persona, e sono andato a mia volta a percorrere per tre mesi le giungle della Malesia occidentale, allo scopo di verificare tutti i racconti accumulati nel corso degli anni sugli 'uomini selvatici e villosi' della regione. Mi sono recato sui luoghi delle osservazioni della mia corrispondente, in posti di sconvolgente bellezza, e ho finito per acquisire l'intima convinzione dell'esistenza, a tutt'oggi e in alcune zone precise, di giganteschi antropoidi ancora ignoti alla zoologia, attorno ai quali si è formato tutto un complesso di fantasiose leggende che sono però lungi dall'essere semplici racconti di comari. Molte persone assolutamente degne di fede possono testimoniarlo.
Il capitano a riposo Mokhtar Mohamad, di 46 anni, responsabile delle foresterie del parco del lago Cini, è entrato in contatto fisico con uno di questi scimmioni. Si tratta di un uomo colto, esperto conoscitore della giungla, che parla perfettamente inglese ed è assolutamente prosaico nelle sue convinzioni. Per esempio, non crede all'esistenza del 'drago' del Tasik Cini, spesso paragonato al 'mostro' di Loch Ness. Egli ritiene che si tratti di una superstizione di origine tailandese o cinese, giunta al seguito di immigranti dal nord. Questa superstizione sembra alimentata dalla presenza nella regione di pitoni giganteschi: è ancora vivo il ricordo dell'uccisione di uno di essi, grande come un albero, da parte di un bomoh (stregone) chiamato in soccorso una trentina di anni fa dalla popolazione impaurita. Io stesso ho visto con i miei occhi il 'Buco del Serpente', la tana sulla riva usata come rifugio dal pitone.
Sono state proprio le mie indagini su questo 'mostro' a procurarmi la testimonianza del capitano Mokhtar. Se aveva sentito parlare dello Jarang Gigi? Eccome! Non solo, ma l'aveva incontrato, e quest'incontro aveva causato un dramma nella sua vita personale.
Il fatto era avvenuto nella primavera del 1989. Verso le sei del pomeriggio, mentre passeggiava in compagnia della moglie Azlinah Ismaïl lungo una pista della giungla prossima a Palau Balaï, un isolotto nel lago Cini, gli era parso di udire il rumore di una cascata e, incuriosito, si era diretto verso la sua origine, per scoprire che era prodotto da un grosso animale che avanzava furtivamente fra il fogliame.
Improvvisamente, una grossa mano villosa si era posata sulla sua spalla sinistra. Reagendo istintivamente, colpì col suo parang (sorta di machete) la creatura che lo aveva toccato. Doveva rimpiangere per tutta la vita questo gesto violento, benché comprensibile. La moglie, dal canto suo, aveva visto la bestia dominare il marito dall'alto dei suoi circa 2 metri e dieci. Era simile a un enorme gorilla, interamente ricoperto di pelo biondiccio (fairish). La sua testa era molto più grossa di quella dell'uomo e una lunga capigliatura bionda ricadeva sulle sue spalle larghe e possenti.
Il capitano Mokhtar poté vedere l'animale allontanarsi in posizione eretta, correndo precipitosamente e facendo oscillare le braccia come un gibbone. Fu inoltre in grado di notare un accenno di coda alla base del dorso.
Nelle orme smisurate che lo scimmione aveva lasciato dietro di lui, l'impronta del tallone appariva più profondamente marcata di quella delle dita allargate a ventaglio, segno evidente di un'andatura molto particolare.
Azlinah Ismaïl, allora incinta di sei mesi, fu talmente scossa da quell'incontro che abortì. È dunque comprensibile che oggi non voglia riportare alla memoria il pauroso incidente che costò la vita al suo bambino.
Mokhtar, da parte sua, rimpiange la sua reazione di istintiva difesa. La povera creatura, a suo dire, non aveva intenzioni ostili e sarebbe stata un'occasione unica di fare la sua conoscenza. In ogni caso, egli spera fortemente di incontrare un altro di questi animali, dato che essi hanno l'abitudine di avvicinarsi molto alla stazione di cui è responsabile. Alcuni visitatori hanno potuto intravederli, di notte, nei pressi degli chalets che occupavano, e dove io stesso sono stato alloggiato.
Occorre precisare che in tutta la regione abbondano sia gli elefanti che le tigri. Le tracce di queste ultime sono occasionali, ma quelle dei primi sono quotidianamente visibili, spesso accompagnate da escrementi freschi. Eppure, sarebbero necessari mesi di appostamento per riuscire a scorgere anche solo la punta della proboscide di uno di essi. La grande foresta equatoriale è avara dei propri tesori. Nel momento in cui vi si penetra, non si può fare a meno di segnalare la propria presenza, e i suoi abitanti si dissimulano facilmente. Solo il grido di un uccello o il vertiginoso e scandito ululato ascendente di un gibbone ne rompono a tratti il silenzio opprimente.
Percorrendo il labirinto di meandri tenebrosi sul lago Cini, sono andato in piroga a trovare gli Orang asli (aborigeni) che vivono nelle vicinanze. Questi Jaku, o proto-malesi, che continuano a cacciare nella giungla servendosi di cerbottane, mi hanno confermato la presenza nella foresta di enormi scimmie dall'apparenza pacifica, con le quali essi intrattengono a distanza sporadiche relazioni di buon vicinato.
In epoca coloniale si commise l'errore mostruoso di considerare gli indigeni come dei poveri di spirito dominati da ingenue superstizioni. Ciò significa dimenticare che per questi 'selvaggi' la conoscenza del loro ambiente naturale è una questione di vita o di morte: animali e vegetali commestibili, bestie pericolose e piante di cui bisogna diffidare, virtù benefiche o curative dei prodotti della natura, tutto è minuziosamente catalogato e denominato, e persino le infime creature sono designate con un termine specifico. Ogni volta che la scienza occidentale scopre una nuova specie, ci si rende conto che essa è ben nota a coloro che vivono nella sua zona di diffusione. Questa regola non ha eccezioni. Così, il bovide sconosciuto (Pseudoryx nghetinhensis) individuato recentemente nella provincia di Ha tinh, nel Vietnam del nord, in base alle testimonianze di alcuni crani e pelli, però mai visto da nessun occidentale, porta il nome locale di Son Duong (capra di montagna), di Sung Dai (corna lunghe) e di Sao La (corna affusolate). Va ad onore della criptozoologia, la scienza degli animali nascosti, il fatto di aver ridato agli indigeni la parola che la zoologia tradizionale tendeva a rifiutar loro.
Nel corso della mia indagine sono entrato in contatto, fra gli altri, con un pensionato di 67 anni del kampong (villaggio) di Air Merah, presso Mersing, tale Amin Mohamad. Costui mi ha raccontato con facondia l'esperienza vissuta dal cugino Kaweyt bin Tokgampal, recentemente deceduto, nella foresta a nove chilometri da Mersing, dove viveva solo con la moglie. Il fatto è avvenuto tre o quattro anni fa.
Il vecchio cugino, di parecchi anni più anziano del narratore, stava ritirando le sue nasse verso le dieci di sera, quando, nel fascio luminoso della sua torcia elettrica, aveva scorto quello che lui chiamava un hantu hutan (demone della foresta), ritto nell'acqua bassa da cui egli raccoglieva manualmente i pesci. Di pelo scuro, simile a un gorilla, aveva stimato la sua altezza in 4 o 5 metri, ma occorre notare, con i Russi, che 'la paura fa gli occhi grandi'. La torcia traeva dai suoi occhi un sinistro riflesso giallastro. Quando l'essere uscì rapidamente dall'acqua, si vide che aveva le ginocchia piegate e le dita dei piedi ampiamente divaricate. Ma l'alluce non appariva più divaricato delle altre dita, cosa singolare in una scimmia. L'emozione non aveva permesso a Kaweyt bin Tokgampal di notare altri particolari anatomici della creatura.
Mi è anche capitato, durante l'inchiesta, di visitare una piantagione di Hevea, sita a solo cinque chilometri da Marsing. Il mio amico Salui Sukumaran, figlio di Paran - un indiano Tamil di 35 anni, meccanico in città presso il garage della Caltex – mi aveva dato quest'indicazione. Poco tempo prima sua moglie, che conoscevo bene per aver cenato a casa loro, era occupata a raccogliere lattice nella piantagione, quando una delle sue compagne aveva scorto presso l'acqua un essere interamente peloso, venuto a bere, e scomparso poi come per incanto.
Assieme a Salui Sukumaran mi sono avventurato su una Land Rover in questo immenso territorio accidentato, dove abbiamo corso il rischio di perderci. Per fortuna alcuni motociclisti di passaggio ci hanno rimesso sulla buona strada. Avendo noi accennato allo scopo della nostra visita, questi ci riferirono in termini molto semplici che effettivamente gli Jarang Gigi seminavano il terrore fra gli operai della piantagione, al punto che, rifiutando i malesi di continuare a lavorarvi, era stato necessario assumere degli indiani.
Bisogna precisare che la convinzione popolare relativa all'esistenza degli Jarang Gigi non è universalmente diffusa nella Malesia peninsulare, ma si limita ad alcune particolari zone, quelle cioè in cui essi sono presenti. Tanto per fare un esempio, ho trascorso qualche tempo al Taman Negara (parco nazionale), la più antica foresta primordiale al mondo, un'immensa riserva di 4.343 km² nella parte nord di Pahang. In questo mare di giungla tropicale trovano rifugio tutte le specie di grande taglia che la Malesia conta nella sua fauna – elefanti, rinoceronti, tapiri, tigri, leopardi – e che, beninteso, è possibile vedere solo in casi eccezionali. Ho potuto convincermi, in seguito a varie conversazioni con gli Orang asli locali – Batek di tipo negrito, neri e con i capelli crespi, un tempo chiamati Semang – che essi non avevano diretta esperienza di scimmie gigantesche. Solo alcuni di loro ne avevano sentito parlare, e ciò che sapevano in materia aveva tutta l'imprecisione di una vaga diceria.
Non c'è da stupirsi, d'altronde, del fatto che la leggenda dei giganti villosi abbia avuto origine e si sia diffusa in tutta la regione a nord-ovest di Mersing. Nel lussuoso volume edito da Geoffrey W.H. Davidson, Endau-Rompin: A Malaysian Heritage, che la Malayan Nature Society di Kuala-Lumpur ha pubblicato nel 1988 per celebrare l'esplorazione della regione, si può leggere quanto segue:
Questo mi era già stato riferito, ma in altri termini, da Talib bin Lehman, il boscaiolo Jakun che conosceva gli Jarang Gigi solo per sentito dire. Egli affermava che soltanto un bomoh (stregone) poteva comunicare con loro chiamandoli per nome. Ciò si collega bene alla mia lunga esperienza di animali selvatici. Non bisogna cercare di sorprenderli - cosa d'altronde inutile, dato che essi 'sentono' la nostra presenza - , ma è meglio annunciarsi loro parlando con voce calma, dimostrando così di non avere intenzioni ostili. Questo sistema mi ha sovente permesso in Africa di avvicinare, per fotografarli, leoni e ghepardi, licaoni e otocioni, elefanti e bufali cafri, nonché rinoceronti (anche se solo quelli bianchi, dato che i neri caricano a vista).
Il testo di Endau-Rompin sui giganti villosi prosegue così:
Questo per quanto riguarda la leggenda, dalla quale traspare il processo di mitizzazione della realtà: la rarità degli incontri con gli Jarang Gigi spiegato con la loro facoltà di apparire e scomparire all'improvviso, la passata reputazione di antropofagi per giustificare il timore che la loro vista ispira, la necessità di presentarsi loro chiamandoli per nome come simbolo della difficoltà di accostarli. Ma, in realtà, chi li conosce bene per averli incontrati ne parla come di giganti scontrosi, timidi e inoffensivi. In un primo momento sembrano amichevoli e giungono fino al punto di fare essi stessi i primi approcci. Poi, di colpo, si smarriscono, si impauriscono e corrono a rifugiarsi nel folto della giungla.
Le storie sugli uomini selvatici e pelosi più o meno grandi non sono cosa soltanto di ieri, in Malesia. Ne ho diffusamente trattato nella mia opera Sur la piste des bêtes ignorées (Sulle tracce degli animali ignorati), del 1955.
Già nel 1824, in un libro sulla penisola malese, John Anderson, funzionario della Compagnia delle Indie Orientali, menzionava una razza di uomini selvatici che vivevano nella zona interna del Burnam, che costituisce la frontiera fra gli stati di Perak e di Selangor:
"Sono chiamati Tuah Benua (gli anziani della terra) dalla gente di Selangor e sono conosciuti a Kedah sotto il nome di Mawas".
È opportuno notare che mawas è il termine usato dagli abitanti di Sumatra per designare l'orango. Detto fra parentesi, l'orango (o orang-utang), lo scimmione rosso di Sumatra e del Borneo, non è mai stato chiamato così in quei luoghi, poiché il termine orang-hutang (uomo dei boschi) viene usato unicamente per designare popolazioni umane residenti nella foresta.
Anderson continuava così:
"Secondo i malesi esiste un'altra razza selvatica, chiamata Bilian, che è coperta di peli e possiede unghie di straordinaria lunghezza".
L'etnologo J.R. Logan riferiva, in un numero del Journal of the Indian Archipelago and Eastern Asia del 1849, che i Mawas sono selvaggi nudi che fuggono ogni volta che incontrano dei Binua (umani autoctoni), e aggiungeva, in una nota in calce:
"Dato che i Binua di Johor descrivono degli uomini selvatici (orang-hutan) somiglianti a questi, non posso fare a meno di pensare che nelle giungle della penisola deve nascondersi un grosso orango di una specie simile a quella del Borneo".
Nel suo studio sui mammiferi della penisola malese (1895), lo zoologo H.N. Ridley ha definito i termini della questione così come si presentava alla fine del secolo scorso:
Nel frattempo si era verificato un episodio di difficile interpretazione, non certo adatto a far luce sul problema.
Nei suoi ricordi di viaggio Ad Orientem (1890), A.D. Frederickson, della Royal Geographic Society di Londra, aveva effettivamente pubblicato la raffigurazione di "un curioso esemplare di umanità villosa" che era stato spedito via mare ad un'istituzione scientifica di Calcutta:
"Trovato allo stato selvatico nel profondo della foresta di Johor, dove viveva di frutti e radici, non aveva probabilmente mai visto anima viva. Non ho dubbi sul fatto che quest'uomo, in mano a Barnum, potrebbe rivelarsi una miniera d'oro, benché la sua vista sia tutt'altro che gradevole".
Il disegno che accompagnava queste parole mostrava un individuo interamente coperto di pelo, anche sul viso, e richiamava alla memoria quegli 'uomini-cane' o 'uomini-leone', accuratamente pettinati e spazzolati, che venivano esibiti di quando in quando nelle fiere paesane. Si tratta di un tipico fenomeno di ipertricosi, uno sviluppo abnorme del sistema pilifero che può colpire chiunque e di cui si conoscono casi che hanno coinvolto famiglie intere.
Bisognerà aspettare la fine della guerra per saperne di più sugli autentici mawas della penisola.
Il giorno di Natale del 1953, nella piantagione di alberi della gomma sita a sedici chilometri dalla città di Trolak (Perak meridionale) e un po' distante dagli altri lavoranti, una giovane cinese di sedici anni, Wong Yee Moi, si adoperava per estrarre la linfa da una pianta. Stava coscienziosamente intagliando nella corteccia il solco a spirale intorno al fusto lungo il quale il lattice sarebbe gocciolato, quando un paio di braccia pelose la cinsero alla vita da dietro. Girò la testa, e rimase gelata dal terrore alla vista della donna che la stringeva, se donna si poteva chiamare quell'essere villoso e ripugnante. Una donna? Piuttosto una scimmia femmina. Una lunga capigliatura nera e arruffata le scendeva fino ai fianchi, contrastando con l'anormale bianchezza della sua pelle. Aveva peli sulle braccia, sul petto, sulle cosce, dappertutto. Le sopracciglia erano prominenti e cespugliose, ed emanava da lei un acuto odore di bestia selvatica. Come unico indumento indossava una sorta di perizoma di corteccia giallo.
Era, sicuramente e con tutta evidenza, venuta con intenzioni pacifiche, e probabilmente inviata da due maschi di grande taglia, anch'essi pelosi e robusti, che si tenevano in disparte a una ventina di metri, come per non spaventare troppo la ragazza. Questi ultimi avevano baffi lunghi fino alla vita e ciascuno di loro portava un coltellaccio sull'anca. Ma la femmina, con una smorfia che voleva essere un sorriso accattivante, scoprì lunghe zanne giallastre e cominciò ad emettere dei suoni simili al gracchiare di un uccello. La giovane cinese, con un urlo di orrore, si divincolò dalla stretta maleodorante e fuggì a gambe levate, provocando uno scoppio di risa nei maschi villosi. La ragazza fu infine trovata in stato di choc da M.S. Brown, l'amministratore della piantagione, che avvertì subito la polizia di Kuala Lumpur, capitale dello stato.
Fatto si è che, essendosi la notizia dell'intrusione del trio villoso sparsa come un fuoco di polvere fra gli operai della piantagione, questi non osavano riprendere il lavoro. Fu così necessario distaccare due pattuglie delle forze di sicurezza malesi per dare la caccia agli intrusi.
E si scoprì che quello vissuto dalla giovane Yee Moi non era stato solo un orribile sogno. Nei giorni seguenti, infatti, i tre 'uomini-scimmia', come si cominciò a chiamarli, furono avvistati da numerose altre persone.
Per cominciare, una giovane malese che stava lavando i panni nel fiume Trolak li aveva visti nuotare in quelle acque, rimanendone terrorizzata. Altro testimone, e più credibile, poiché si trattava di un caporale della polizia malese, fu Abdul Talib, il quale, durante un normale servizio di pattugliamento con la sua unità di sorveglianza, aveva scorto il terzetto sull'altra riva del fiume e li aveva uditi emettere grida inarticolate simili a grugniti. Il caporale imbracciò la carabina per tenerli sotto tiro e prevenire qualsiasi tentativo di aggressione, ma i tre, girata improvvisamente la testa, lo individuarono e senza perdere un secondo si tuffarono in acqua per poi, nuotando con vigorose bracciate, allontanarsi e sparire. Questa fu la conferma ufficiale, si può dire, della loro reale esistenza.
Un' altra testimonianza venne d'altronde a rafforzare le precedenti. Un raccoglitore di lattice Tamil di 45 anni, di nome Appiasamy, si trovava al lavoro col suo coltello e gli appositi recipienti, quando era stato anche lui ghermito dall'orribile femmina villosa dalle grandi zanne. Si era disperatamente dibattuto, mentre, come poteva vedere con la coda dell'occhio, i due maschi assistevano alla scena. Ad un certo momento inciampò in una radice, rotolò giù per il pendio e perse conoscenza. La scena fu accompagnata dalle risa sguaiate dei maschi villosi, a dimostrazione che non mancava loro il senso dell'umorismo.
Non era possibile immaginare un accordo preventivo fra i tre testimoni, appartenenti a gruppi etnici molto disparati: una cinese, una malese e un indiano. Così l'avvenimento occupò presto la prima pagina dei giornali. E allora, a dimostrazione di una completa ignoranza della realtà dei fatti, circolarono le più fantasiose ipotesi sull'identità del terzetto. Si parlò, e senza la minima giustificazione, di pitecantropi, di abominevoli uomini delle nevi (all'equatore!), nonché - occorre dirlo? - di 'anello mancante' secondo la teoria darwiniana. Gli ambienti scientifici del posto, dal canto loro, furono realmente scossi da quelle notizie, che non era possibile ignorare. Gale T. Sieveking, direttore dei Musei malesi, dichiarò che pensava di organizzare una spedizione nella piantagione di Trolak per tentare di scovare e catturare le misteriose creature.
Lo scienziato britannico rilevava che queste ultime portavano intorno alle reni una striscia di corteccia e che correvano in posizione eretta come gli uomini, spostandosi senza mai servirsi delle mani, come avrebbe invece fatto una qualunque scimmia antropoide. Sotto questo punto di vista, si trattava senza dubbio di creature umane. Tuttavia, la fronte sfuggente, le arcate sopraccigliari prominenti e le sopracciglia a folti ciuffi erano caratteristiche di tipo arcaico. Questi tratti, e la presenza di lunghi canini, indicavano, secondo Sieveking, che
"... queste creature sono dei sopravvissuti di una delle prime tribù nomadi della Malesia".
Eppure, delle popolazioni costituenti le più primitive tribù erranti della Malesia, né i Sakai, di origine veddoide, né i Semang, neri del tipo "negrito", hanno il corpo villoso. È vero che i Sakai portano capelli molto lunghi, però hanno la pelle notevolmente glabra, ed inoltre non bianca, ma di un bruno accentuato. E ancora, come è facile constatare, sono di taglia mediocre, un metro e mezzo o poco più, mentre gli 'uomini-scimmia' di Perak, e le testimonianze concordano su questo punto, misurano più di un metro e ottanta centimetri.
E allora? A quale tribù nomade alludeva Sieveking? Alludeva veramente ai pitecantropi?
Quel che è sicuro è che nessun essere umano, e cioè nessun rappresentante del genere Homo, possiede canini tanto lunghi da sporgere rispetto agli altri denti, e il Pitecantropo (Homo erectus) non fa eccezione alla regola. Quello dei canini sporgenti è piuttosto uno dei caratteri distintivi dei Pongidi, cioè delle scimmie antropomorfe.
In ogni modo, le lingue cominciarono a sciogliersi. Molte altre persone avevano visto gli esseri villosi, ma lì per lì, forse per paura del ridicolo, non lo avevano detto.
Vent'anni prima, un veterano della Malesia, Henry W. Cowling, viaggiava in auto con un ufficiale dell'esercito, il maggiore Armstrong, sulla strada che da Muar porta a Batu Anam, nel Johor, quando aveva incontrato "una coppia molto pelosa e d'aspetto scimmiesco". La femmina indossava una gonna di tessuto rosso, il maschio portava un bastone scortecciato lungo circa tre metri. Alla loro vista, l'autista aveva esclamato "Orang-hutang!". Gli occupanti dell'auto avevano visto le due creature camminare verso di loro sul bordo della strada con andatura dondolante. Erano molto villosi, il pelo di un colore da nero a bruno-rossastro. Nei loro occhi iniettati di sangue si leggeva la paura. Misuravano da quattro a 4,5 piedi di altezza, cioè fra 1,20 e 1,35 metri, veramente poco.
Cowling aggiungeva che aveva passato la notte presso un certo J.S. Boissier, il quale gli aveva detto che una colonia di quelle creature pelose – circa 120 – viveva non lungi dal luogo dove era stata vista la coppia. Alloggiavano in nidi di ramaglia collocati sulle biforcazioni principali degli alberi ed era possibile, a quanto si diceva, stabilire un contatto con loro per mezzo di intermediari Sakai, veddoidi, che parlavano la loro "lingua scimmiesca".
In seguito si fece vivo un piantatore di Perak che nell'agosto del 1927 s'era imbattuto in non meno di cinque di quelle creature sulle Cameron Highlands, all'estremità occidentale di Panang. La notte era calda e tutti i cani, nervosi, abbaiavano senza tregua impedendo agli uomini di dormire. Al mattino alcuni lavoranti vennero a riferire di aver trovato numerose impronte di strani passi sul suolo da poco asciugatosi della Stazione Sperimentale. Dopo aver frettolosamente fatto colazione, il piantatore, accompagnato da Ko Po Chet, un birmano, e da Niah Bahadur, un gurkha, si recò sul posto. Fra tutti e tre avevano una sola arma da fuoco. Avevano già marciato un'ora nella giungla, e si apprestavano a rimontare un forte pendio, quando il piantatore, che apriva la strada a colpi di machete, si fermò di netto al suono di una tosse cavernosa. Alzati gli occhi, vide una creatura corrispondente alla descrizione degli uomini-scimmia di Trolak: zanne potenti e sguardo fisso e pacifico. Dietro di lui stavano altri quattro di quegli esseri.
Il piantatore si sentì mancare le gambe, cercò subito con lo sguardo la carabina che Ko Po Chet aveva portato fino a quel momento e si accorse con grande smarrimento che il birmano l'aveva posata al suolo e se la dava a gambe gridando di non sparare. Allorché il piantatore riportò la sua attenzione sugli uomini-scimmia, questi stavano già allontanandosi.
Po Chet gli disse poi che quelle creature erano comuni in Birmania, e di ritenere che si trattasse di spiriti di morti assassinati che cercavano i loro uccisori per farli a pezzi.
Molto tempo dopo, nel 1949, un ufficiale dell'esercito in servizio di pattuglia lungo il fiume Johor, a monte di Kota Tinggi, aveva veduto quello che gli era parso un essere umano nascondersi nel sottobosco ad una trentina di metri di distanza. Era l'epoca in cui si dava la caccia ai gruppi comunisti che cercavano di infiltrarsi nella regione. L'ufficiale, dato l'alt alla pattuglia, aveva fatto fuoco. Si era allora levato un orribile urlo di dolore, e l'ufficiale provò la maggior paura della sua vita quando vide, e con lui tutti gli uomini della pattuglia, una forma villosa della taglia di un uomo adulto fuggire tenendo una mano contratta sulla spalla.
Infine, un altro ufficiale dell'esercito, che nel 1951 era in servizio a Ulu Dong, nel Pahang, inviò un rapporto alla direzione dell'Aborigenal Research, l'organismo che si occupava delle popolazioni aborigene a Kuala Lumpur. Uno degli abitanti del villaggio gli aveva raccontato di aver visto delle grandi creature pelose lavarsi di buon'ora nel fiume, qualche miglio a monte. L'ufficiale aveva progettato di recarsi a ispezionare il posto, ma era stato trasferito prima di averlo potuto fare. Da notare che un tenente di polizia, che si trovava presente al racconto del villico, gli disse che durante un servizio di pattuglia partito da Ulu Cheka aveva lui stesso visto una di queste creature.
Quanto precede è stato raccontato nei particolari da Stuart Wavell, un giornalista britannico che aveva indagato in loco sugli uomini-scimmia di Perak, nella sua opera The Lost World of the East (Il mondo perduto dell'Oriente), del 1958. Egli aveva interrogato a Ulu Slim, nella parte nord di Perak, alcuni aborigeni Sakai che conosceva personalmente, e questi gli avevano riferito che il terzetto di creature villose era passato per la giungla che costeggia il fiume Slim e stava addentrandosi nella regione in direzione delle montagne. Un anziano aveva perfino precisato che "erano dei cannibali", sostenendo l'affermazione con il racconto di un vecchio episodio:
L'inchiesta condotta all'epoca dalla polizia e da Richard D. Noon del Servizio di Protezione degli Aborigeni, giunse alla conclusione che le due donne rapite, ché di due donne si trattava, erano state in realtà divorate da tigri. Dopotutto, forse è vero. In questo caso, i due rapitori avevano dovuto abbandonare le loro prede in seguito all'incontro con una tigre mangiatrice d'uomini. Gli Orang asli pretendevano di aver abbattuto uno degli uomini-scimmia, ma non furono in grado di spiegare che fine avesse fatto il suo corpo. Puzzava di vanteria lontano un miglio, ma contribuì molto a rendere impopolari gli uomini-scimmia. Tanto più che la storia combaciava con la passata reputazione di antropofagia dello Jarang Gigi.
Nel numero di aprile del 1971, lo Straits Times di Singapore rivelava che un ingegnere di Kuantan, Arthur Potter, aveva visto una dozzina d'anni prima, cioè intorno al 1959, quello che lui chiamava un Orang mawas. Il fatto era accaduto nel Tasik Cini, là dove il capitano Mokhtar avrebbe trent'anni dopo fatto il suo memorabile incontro. L'ingegner Potter dormiva nel suo battello sulla riva del lago, quando la copertura della cabina, alta 2 metri e 40, si era parzialmente sollevata da un lato. Potter aveva diretto il fascio della sua torcia nell'apertura che si era prodotta, illuminando così un occhio rosso che lo fissava, grande come una palla da tennis. L'ingegnere aveva pensato che fosse un gigantesco pitone, come ne esistono laggiù. Ma l'indomani aveva avuto la sorpresa di scoprire sul fango della riva delle orme di piedi apparentemente umani, lunghe 45 centimetri. Seguì la pista per una sessantina di metri, ma questa finiva per perdersi nella giungla.
Nel 1961 ci fu un seguito a questo episodio. Il 12 febbraio di quell'anno, il Sunday Times, supplemento domenicale dello Straits Times, riportò i commenti del segretario del Mentri Besar (grande ministro) di Pahang, Inche Zacharia bin Hitam, particolarmente versato in folclore locale, il quale ricordava che sotto il regno del sultano Ahmad, fra la fine del secolo scorso e l'inizio dell'attuale, un aborigeno gigante viveva nutrendosi di frutti nel cuore della giungla di Pahang. Tuttavia, le sue enormi impronte erano state trovate appena un anno prima (e cioè nel 1960) su un banco di sabbia di Pulau Temerloh, un isolotto fluviale a un miglio dalla città di Temerloh.
Questi annunci a carattere folclorico furono provocati dalle clamorose rivelazioni del quarantacinquenne Game Warden (ispettore venatorio) dello stato di Johor, Inche Jalib Ahmad. Costui, fino a quel momento scettico, dichiarava di dover ammettere l'esistenza di creature alte almeno 3 metri, che lasciavano nel fango impronte di tipo umano. Le impronte, lunghe 30 pollici (75 centimetri!), erano state recentemente rilevate da un piantatore di gomma di ventisei anni, Inche Hamzah bin Hassan, nella giungla che si estende presso Kluang, al quarantacinquesimo miglio della strada che porta da Johor Bahur ad Ayer Hitam.
Il piantatore sosteneva inoltre di aver udito la voce della bestia, "simile al grido di Tarzan". Il grido, lungo, gutturale, tonante, corrispondeva in realtà a quello che un aborigeno di nome Inche Yusof Kunton emetteva ogni qualvolta raccontava di essersi trovato, mentre raccoglieva del giunco nella foresta venticinque anni prima, a faccia a faccia con un gigante villoso nerastro e alto tre metri. I denti della creatura erano molto distanti l'uno dall'altro, e questo gli aveva ricordato le storie udite a proposito dello Jarang Gigi. Il gigante era scomparso, ma l'aborigeno aveva spesso udito in seguito quello che riteneva essere il suo grido. S'era sforzato di imitarlo, e aveva a volte ottenuto risposta. Questa dimostrazione era stata eseguita anche in presenza del piantatore.
Tenuto conto delle circostanze, l'ispettore venatorio proponeva di chiedere al Governo di vietare l'accesso alla regione vicina a Kluang, per impedire ai cacciatori dal grilletto troppo facile di abbattere i pacifici giganti. Sfortunatamente questa proposta non ebbe seguito, forse a causa delle dimensioni veramente eccessive che erano state attribuite alle orme osservate. Un lettore dello Straits Times, che si firmava H.J.K., suggerì che poteva trattarsi di scavi superficiali provocati da cinghiali in cerca di radici subito dopo una breve pioggia. Spiegazione che, perfettamente plausibile nel caso specifico delle impronte, non teneva però conto né dell'esperienza visiva di Inche Yusof Kunton, né della risposta da lui a volte ottenuta alle sue imitazioni del grido di Tarzan.
Non si può che restare colpiti dalla regolarità con cui certe caratteristiche degli ominoidi della penisola malese sono citate: il corpo potente interamente villoso, i peli di color nero-rossastro con chiari riflessi biondastri, gli occhi rossi o iniettati di sangue, le zanne visibili nella bocca semiaperta come denti molto distanziati, l'odore di selvatico, l'andatura invariabilmente bipede, il desiderio di stabilire una comunicazione con gli esseri umani. Si aggiunga l'uso, segnalato da alcuni, di rozzi indumenti e, secondo un osservatore, perfino di coltellacci, cosa poco compatibile con la natura scimmiesca.
Bisogna tuttavia tenere presente che gli stessi oranghi tendono a coprirsi di foglie per ripararsi dalla pioggia, e a volte si servono anche di sacchi di iuta accidentalmente rinvenuti. Il 23 ottobre 1992, al centro di riabilitazione di Sepilok (a Sandakan, nella regione del Sabah, in Borneo), un turista francese fu completamente spogliato dei suoi abiti da una quattordicenne femmina di orango, che evidentemente glieli invidiava. Creature mentalmente più evolute, dunque, potrebbero benissimo aver acquisito simili abitudini umane.
Un altro punto che potrebbe lasciare sconcertati è quello del disaccordo fra i vari osservatori per quanto riguarda le dimensioni attribuite alle creature villose. Si va da un metro e venti a quattro o cinque, ma le stime più comuni oscillano fra due e mezzo e tre. La cosa però non dovrebbe sorprenderci oltre misura, se teniamo conto della rarità di questi incontri e della tendenza dei testimoni a riportare impressioni esagerate sotto l'influsso della sorpresa e della paura. Non dimentichiamo che quando la scienza occidentale scoprì l'orango - chiedo scusa!, il Mawas – ne descrisse tre o quattro specie diverse. Anche nelle sue zone di diffusione se ne riconoscevano tre forme distinte: il Mias pappan, il Mias kassan e il Mias rombi, ed inoltre, a Sumatra, il Mawas kuda (orango-cavallo), il Mawas kambing (orango-capra) e il Mawas perok (orango-scoiattolo). Non occorre essere esperti per individuare oggi in queste tre forme il maschio, la femmina e il giovane immaturo, di aspetto molto diverso. Anzitutto il dimorfismo sessuale è molto marcato, il maschio adulto essendo il solo a possedere una cresta sagittale sviluppata ed appariscenti processi adiposi e fibrosi intorno al volto. La femmina pesa meno della metà del maschio e i piccoli hanno un aspetto assolutamente inconfondibile, dovuto alla loro testa a forma di noce di cocco. Potrebbe essere lo stesso per lo Jarang Gigi o Orang mawas, che è probabilmente imparentato, anche se solo alla lontana, con l'orango, come anche il suo nome sembra indicare.
Nell'estate del 1966, il giornale in lingua malese Utusan Melayu, pubblicato a Kualu Lumpur, annunciò che uno di questi giganti aveva fatto scattare l'allarme in un campo militare dell'esercito territoriale a Segamat (Johor). Una sentinella di guardia durante la notte, dopo aver udito rumore di passi, aveva avvistato alla luce del fuoco da campo un mostro la cui altezza aveva stimato a 6 metri. Il gigante, vistosi scoperto, era subito sparito (Aggiungiamo che, quando il Seattle Times, il 17 agosto, riportò questa notizia negli Stati Uniti, la statura del mostro aveva già raggiunto i 25 piedi, e cioè sette metri e mezzo!).
Il fatto è che, la settimana prima, gli abitanti del kampong (villaggio) di Bangis, a 15 chilometri da Segamat, avevano rilevato delle orme lunghe 45 centimetri, larghe 15 e profonde 12,5. Una guardia forestale della riserva di caccia locale s'era affrettata a dichiarare che il gigante non rappresentava assolutamente un pericolo per le persone. Conosceva evidentemente i suoi simili.
Tre anni più tardi, nell'agosto del 1969, il figlio del sultano di Pahang, Tengku Makhota, organizzò una spedizione per trovare alcune creature villose, alte solamente un metro e venti centimetri, che erano state viste nella giungla. Le femmine sembravano più chiare dei maschi e avevano i capelli molto più lunghi. Giudicando dalle impronte osservate, il Dipartimento degli Affari Aborigeni dichiarò che esse erano da attribuirsi agli Orang Batek, una tribù di primitivi molto scontrosi. Ma gli individui appartenenti a quest'etnia, di cui ho visitato un villaggio nel Taman Negara, sono particolarmente scuri e hanno capelli crespi, essendo in realtà apparentati ai negritos della Papuasia. Ancora una volta, un intervento ufficiale intempestivo aveva messo fuori strada i ricercatori.
Nella primavera del 1971 l'affare prese una nuova direzione. Due americani, Harold Stephens, scrittore di racconti d'avventura, e Kurt Rolfes, fotografo giornalista, unirono le loro forze nel tentativo di risolvere il problema degli esseri villosi.
Dopo aver risalito per nove giorni il fiume Endau, alla frontiera fra gli stati di Johor e Pahang, fecero ritorno con informazioni di prima mano sull'Orang mawas. Gli aborigeni che avevano incontrato gli attribuivano una statura di 3 metri, un volto peloso, degli occhi rossi o iniettati di sangue e un torace grosso come quello di sette uomini riuniti, e sostenevano che si sposta sempre in posizione eretta. I due esploratori avevano inoltre appreso che questi giganti vivono su un altopiano oltre la dodicesima rapida dell'Endau, ed erano riusciti a fotografare delle impronte apparentemente umane lunghe 35 cm e larghe 21, da loro personalmente scoperte laggiù su un banco di sabbia. Una delle loro guide, di nome Bujong, aveva affermato che si trattava delle tracce dell'Orang dalam (l'uomo dell'interno), di cui aveva egli stesso visto le impronte l'anno prima. Ne aveva poi fornito la descrizione tradizionale, aggiungendo che emanava un forte odore, paragonabile a quello dell'urina di scimmia, aggiungendo che questi esseri hanno dapprima un comportamento amichevole e cercano di stabilire un contatto con gli uomini che incontrano, ma poi la loro fragile sicurezza va in pezzi e corrono velocemente a rifugiarsi nella foresta.
Stephens rese noti i risultati della sua inchiesta, accompagnati dalle foto di Rolfes, nel numero di agosto 1971 della rivista americana Argosy, e li pubblicò nuovamente in un libro, Asian Adventure, stampato a Singapore nel 1985.
Nel 1973 fu la volta di uno zoologo norvegese, Immanuel Viegeland, che era vissuto a Singapore, di fare conoscere le conclusioni delle sue ricerche su quello ch'egli chiamava l'Orang hitam (uomo nero), in un numero della pubblicazione scientifica Norges almenvitenskapelige Forkningsrådt (n° 5 del 1973). Secondo le informazioni da lui raccolte, quest'uomo alto 3 metri vive nelle giungle di Pahang e lascia enormi impronte, alcuni calchi delle quali erano stati consegnati al Museo di Singapore.
Viegeland era stato aiutato nelle sue ricerche da un celebre guaritore di nome Awang bin Nong, che una volta, alle 7 del mattino, aveva personalmente incontrato parecchie di queste creature in cima al monte Gunug Bennon, nella parte occidentale di Pahang. Gli escrementi da lui esaminati testimoniavano di un regime erbivoro o frugivoro.
A causa dell'età avanzata e dello stato di salute, il vecchio stregone non aveva potuto accompagnare lo zoologo nella spedizione, ma gli aveva fornito tutte le indicazioni utili per indurre le creature in questione a mostrarsi. In particolare, gli aveva detto di gettare sul fuoco del keriang, un tipo di resina che produce fumo acre e denso.
Vi furono naturalmente parecchi tentativi senza risultato. Finché, un giorno, nelle profondità della grotta di Kota Papan, nella quale poco tempo prima erano state scoperte le impronte dell'Orang hitam, la combustione del keriang ottenne l'effetto desiderato: si udirono improvvisamente urla e ruggiti provenire da un punto all'esterno della caverna, ma prossimo alla sua entrata. Queste grida furono debitamente registrate con un magnetofono. "Potremmo essere indotti a credere che siano stati gli Orang hitam ad emetterle", commentò Vigeland. Ma a conferma di quest'ipotesi non fu possibile trovare nessuna traccia di passi, poiché il terreno intorno alla grotta era inaccessibile.
Da allora, ci pervengono sporadicamente notizie sui giganti villosi.
Il Berita Harian di Kuala Lumpur del 9 luglio 1979 riferisce che a Tepoh (nello stato di Terengganu) alcuni bambini un mattino, andando a scuola, avevano notato delle orme vicino ad un ponte. La polizia, avvertita, dichiarò che le impronte erano di tre diverse misure: una di tre piedi (90 cm!), un'altra di due (60 cm!) e la terza più piccola. Era comunque troppo. Bisogna osservare che Tepoh è molto distante dall'area di distribuzione tradizionale dei giganti villosi, e questo fa pensare ad una mistificazione.
IL 18 agosto 1979 l'Utusan Melayu rese noto che da qualche tempo alcuni studenti di un istituto religioso di Lumut (nella parte occidentale di Perak) erano disturbati, fra le 10 della sera e le 5 del mattino, da tre creature gorillesche dagli occhi rossi. Era stato forse questo il fatto che il mese prima aveva dato ad alcuni burloni di Tepoh l'idea di confezionare quelle impronte di piedi veramente smisurate...
Dieci anni dopo, l'11 ottobre 1989, il Berita Harian pubblicò la seguente notizia.
Gli aborigeni della riserva forestale di Taman Negeri, in via di organizzazione nella regione dell'Endau, sostenevano che dei 'Piedi Grandi' (il giornalista malese usa il termine Bigfoot, utilizzato dagli americani per designare il loro gigante villoso) erano passati da quelle parti qualche mese prima. Coloro che erano stati in grado di vederli li avevano soprannominati Hantu Jarang Gigi (demoni dai denti distanziati) e descritti come alti 3 metri e ricoperti da pelo di colore variabile dal nero al rossastro.
Alcuni volontari guidati dal capo dipartimento Datuk Haji Wan Sidek Wan Abdul avevano rilevato delle orme lunghe 45 cm, erano rimasti sorpresi nell'apprendere che una specie così rara era stata vista da tante persone, ed avevano stabilito che I 'Grandi Piedi' vivevano nella zona della cascata presso il fiume Kemcin.
Uno dei volontari, Ahmad Abu Bakas di 39 anni, riferì che lui e alcuni compagni avevano trovato le impronte nel corso di una puntata nella regione di Endau-Rompin. Altri trovarono delle lische di pesce sparse sulle rive del Kemcin e ritennero trattarsi dei resti di un pasto consumato dai 'Grandi Piedi'. Inoltre, un aborigeno che li accompagnava sosteneva di aver sentito una grossa mano pelosa posarsi su di lui mentre si trovava al campo dei taglialegna.
Le autorità locali cercarono di seguire le tracce di quei passi, ma dovettero rinunciare perché le impronte si perdevano nel sottobosco.
Un funzionario Felda di Selendang, Roslan Hashim di 27 anni, sostiene dal canto suo di aver visto una forma nera e pelosa abbandonare precipitosamente il campo al momento in cui lui e due colleghi si accingevano a partire per una passeggiata dopo la siesta. Egli riteneva che si trattasse del figlio del 'Grande Piede', perché aveva lasciato impronte di dimensioni pari a quelle del piede di un uomo adulto, ma più largo, con l'alluce più grosso e il tallone allungato e affusolato.
E per finire, il Tok Batin (capo delegato degli aborigeni) del villaggio di Sungai Mok, Liman Din di 64 anni, aveva segnalato che tracce di passi erano state trovate da alcuni aborigeni che si trovavano a caccia lungo le rive del Kemcin, dichiarando inoltre:
"Adesso sappiamo che la famiglia dei 'Piedoni' conta tre membri: la madre, il padre e il bambino".
Infine, a sostegno e conferma di tutti questi rapporti, io stesso ho raccolto, in tre mesi di investigazioni incessanti attraverso le giungle della Malesia peninsulare e del Borneo, le testimonianze citate all'inizio. Dall'insieme di questi dati è possibile trarre delle conclusioni generali.
Le zone dove più frequentemente i giganti villosi sono stati incontrati si trovano, da una parte, nello stato di Johor, nei dintorni della città di Mersing e lungo il fiume Endau, e, dall'altra, nella parte meridionale della provincia vicina di Pahang, dal lago Cini fino alle Cameron Highlands.
Al di fuori di queste zone principali di distribuzione, nelle quali questi esseri devono riprodursi, vi sono altre segnalazioni occasionali di Jarang Gigi, che potrebbero riferirsi a puntate erratiche alla ricerca di cibo o di partner per l'accoppiamento: presso Kluang e Kota Tinggi, nel sud del Johor e nei pressi del fiume Slim, oltre che a Lumut, sulla costa occidentale del Perak.
Questa è la documentazione completa, per quanto possibile, sugli ominoidi selvatici e villosi della Malesia.
Qual è l'identità zoologica di questi titanici primati? La risposta che sembra inevitabile è Gigantopithecus, poiché la passata esistenza di questa grande scimmia è stata effettivamente accertata dalla paleontologia.
È dal 1935, da quando cioè l'olandese Ralph von Koenigswald (1902-1982) rese noto che enormi denti di aspetto umano erano venduti nelle farmacie cinesi sotto il nome di 'denti di drago', che noi sappiamo che tali esseri sono veramente esistiti. Da allora numerose conferme sono venute. Fra il 1956 e il 1958 sono stati dissepolti nel Guang Xi (Cina meridionale) un frammento di mascella inferiore provvisto di denti, appartenente a un vecchio maschio, e due mandibole appartenenti, rispettivamente, a una vecchia femmina e a un giovane maschio. Questi resti risalgono a 500.000 anni fa. Nel 1968 la mascella inferiore di una giovane femmina, datata a 5 milioni di anni fa, fu trovata in India, a Bilaspur, sui monti Siwalik, zona ove abbondano i fossili di antropoidi. Poi, nel 1965, alcuni paleontologi vietnamiti trovarono dei resti di gigantopiteco associati a resti di pitecantropo (Homo erectus) in una grotta di Tham Khuyen (nella provincia di Long Son), non lontano dalla frontiera cinese. Altri loro colleghi scoprirono nuove associazioni di questo tipo nella provincia di Hubei (1970) e in quella di Sichuan (1987), stabilendo così senza possibilità di equivoco la contemporanea presenza di questi due generi nel corso del Pleistocene. Si può ormai ritenere che i gigantopitechi devono essere vissuti almeno fino a 200.000 anni fa.
Così è venuta affermandosi l'idea dell'esistenza, in tempi passati, di uno scimmione gigante dalle proporzioni di un gorilla, ma alto 3 metri e pesante intorno a 500 chili.
Le ricostruzione proposte sono evidentemente ipotetiche, essendo basate esclusivamente su semplici mandibole, se non si tiene conto di un migliaio abbondante di denti. E per metterle a punto si è spesso commesso l'errore di ispirarsi al gorilla, con la scusa che questo è il più grande primate oggi esistente. È ovvio che sarebbe stato preferibile prendere l'Orango come termine di paragone, dato che il ramo Gigantopithecus appartiene manifestamente alla linea evolutiva degli antropoidi asiatici (formatasi separatamente dalle altre). Prova ne sia l'altezza della faccia, che è possibile dedurre per estrapolazione dalla struttura della mandibola.
La tendenza a un aumento della statura è comune a tutti gli esseri viventi, e i primati non vi si sottraggono. Ciò ha dato origine alla comparsa dell'uomo moderno, del gorilla, dello scimpanzè e dell'orango, ma anche, in epoche passate, a quella di lemuri giganti (simili a bovi o a scimpanzè) nel Madagascar (Megaladapis, Palaeopropithecus e Archaeolemur), di babbuini Gelada grossi come gorilla (Theropithecus [Simopithecus] oswaldi) e di enormi Australopitechi (Australopithecus robustus) in Africa, di uomini-scimmia smisurati (Meganthropus paleojavanicus) a Giava, e infine del campione di tutte le categorie, il Gigantopithecus blacki, nel sud-est asiatico. In ognuna di queste regioni il gigantismo estremo è certamente eccezionale, e non è plausibile che si sia verificato parecchie volte.
E così, adesso che abbiamo un insieme di testimonianze sull'attuale esistenza di un primate super-gigante nell'Asia sud-occidentale, possiamo provare a correggere e completare il ritratto del Gigantopiteco.
Anzitutto, i testimoni oculari sono concordi nell'affermare che si tratta di un bipede permanente e che non è possibile immaginarlo in posizione quadrupede, come un gorilla. Inoltre, è fornito di un mozzicone di coda e di piedi umani dal grande alluce non opponibile, caratteri apparentemente poco compatibili con la sua incontestabile natura scimmiesca.
Bisogna però tenere conto del momento in cui ha avuto inizio il suo spettacolare aumento di dimensioni. Esso va evidentemente situato ad uno stadio molto precoce della sua evoluzione, cioè all'epoca in cui il piede della scimmia cominciava appena a differenziarsi da quello dell'uomo (indiscutibilmente più primitivo!) mediante il progressivo distanziamento dell'alluce dalle altre dita, e questo in funzione della vita arboricola. Il Gigantopiteco subì un aumento di peso così rapido da non essere più in grado di salire sugli alberi. I gorilla adulti presentano oggi la stessa limitazione, ed anche in loro si osserva una minore opponibilità dell'alluce.
Forse la precocità di quest'evoluzione spiega anche il moncone di coda, abitualmente assente negli altri Pongidi, cioè nelle grandi scimmie antropoidi. La linea evolutiva che porta al Gigantopiteco è stata senza dubbio la prima a separarsi da quella degli omuncoli bipedi ancestrali all'epoca in cui la coda cominciava ad atrofizzarsi (Tutto questo, se da un lato ha valore solo alla luce della teoria della bipedia iniziale, dall'altro può apportare un supplemento di prova in favore di quest'ultima).
È possibile che il Gigantopithecus sia sopravvissuto fino ai giorni nostri? È più che possibile, è persino verosimile, dal momento che i suoi resti sono stati trovati associati a quelli del panda gigante, dell'orso malese, dell'istrice, del rinoceronte di Sumatra e dell'orango, tutti animali ancora viventi.
È possibile che i gigantopitechi siano presenti al di fuori della penisola malese? È un fatto che esiste un gran numero di voci e rapporti relativi ad avvistamenti di questo tipo, sia nell'Himalaya (il grande Yeti?) che nel Myanmar (ex Birmania) e in Cina centrale (nell'Hubei, principalmente sui monti Shen Nong Gia). Purtroppo non ho avuto occasione di andare a verificarli sul posto. E d'altronde, come direbbe Rudyard Kipling, "questa è un'altra storia".
Articolo licenziato nell'anno 1999.
Traduzione di Giuseppe Ferro.
[1] Mias in inglese si pronuncia 'maias'.
* Recentemente il geocronologista Jack Rink della McMaster University dell'Ontario, ha ridatato alcuni reperti a circa 100.000 anni fa.