Il Mapinguari dell'Amazzonia
Nel 1789 presso le rive del Rio Lujan, non lontano da Buenos Aires, furono rinvenute le ossa di un enorme animale grande quanto un elefante, che il Viceré del Rio de la Plata inviò immediatamente a Re Carlo IV di Spagna. I resti della colossale creatura furono consegnati al Museo Reale di Madrid e affidati all’esame del naturalista José Garriga, che riassemblò lo scheletro. Il risultato finale destò enorme interesse anche al di fuori del mondo scientifico.
La bestia venuta dall’America del sud era infatti lunga circa sei metri e alta due metri e mezzo, possedeva zampe anteriori munite di grandi e robusti artigli ricurvi, arti posteriori brevi e molto massicci, caratterizzati da un femore tre volte più grosso di quello di un elefante, denti enormi, somiglianti a lunghi pilastri quadrangolari dotati di creste trasversali e una coda di media lunghezza, tozza, ma straordinariamente robusta.
Il re di Spagna ne rimase talmente entusiasta e affascinato da trasmettere al governo coloniale l’ordine che gli venisse inviato un esemplare vivo, eventualmente anche se cucciolo, di quello straordinario quadrupede...
Prima di addentrarci in quello che è uno dei più affascinanti (seppur improbabili) casi della criptozoologia, si rende però necessario rivelare la vera identità del misterioso animale passato dalle sponde fangose di un fiume ai manuali di Scienze Naturali con il nome di Megatherium (grande mammifero).
Il primo naturalista a supporre una stretta parentela tra questo gigante e i bradipi fu Georges Cuvier, che elaborò le sue intuizioni basandosi esclusivamente sull’esame dei disegni raffiguranti lo scheletro che aveva messo in subbuglio gli scienziati spagnoli (1).
Oggi sappiamo che le conclusioni del Cuvier erano esatte, e che il Megaterio fa parte del gruppo dei cosiddetti “bradipi terrestri”, singolari mammiferi evolutisi durante l’Oligocene (circa 34 milioni di anni fa) e diversificatisi in numerose forme sino alla loro estinzione, avvenuta (relativamente ad alcune specie di taglia minore) verso la fine del Pleistocene circa diecimila anni fa.
I bradipi terrestri, che abitavano le americhe e le isole dei Caraibi, si suddividevano in quattro famiglie principali (2), le cui dimensioni dei diversi rappresentanti variavano da quelle di un elefante a quelle di un bue per quanto concerne il continente, mentre le specie insulari avevano all’incirca la taglia di un cane. Queste ultime si estinsero inoltre tardivamente rispetto alle specie continentali, circa 4.000 anni fa.
Al contrario dei bradipi attuali, animali di modeste dimensioni con una testa vagamente scimmiesca e due lunghe braccia munite di formidabili artigli, quelli terrestri avevano una conformazione fisica riconducibile a quella degli orsi e un muso somigliante a quello dei cavalli. Inoltre mentre i primi conducono quasi esclusivamente vita arboricola, i secondi, come facilmente intuibile dal nome e dalla taglia imponente, si spostavano esclusivamente sul terreno, prediligendo distese pianeggianti. Un’altra loro particolarità era la capacità di potersi rizzare sulla zampe posteriori per raggiungere le foglie più alte. In questa posizione, resa possibile dall’appoggio al suolo della robusta coda, alcune specie erano anche in grado di deambulare.
Fatte le dovute presentazioni, ci si potrà chiedere in che modo i bradipi terrestri possano avere a che fare con la criptozoologia, e la risposta risiede, come sovente capita, in una scoperta inaspettata.
Nel gennaio del 1895 l’ex soldato tedesco Herman Eberhardt decise di cimentarsi nell’esplorazione di un’enorme caverna chiamata Ultima Esperanza situata nei pressi del suo allevamento di pecore a sud della Patagonia, in prossimità dello Stretto di Magellano. All’interno scoprì uno scheletro umano, ossa di diversi animali e un pezzo di pelle secca, la cui parte esterna era ricoperta da un pelame grigio rossastro, mentre in quella interna erano incastonati una moltitudine di piccoli ossicini grandi quanto fagioli, come se l’animale a cui apparteneva, in vita fosse stato protetto da una sorta d’armatura di maglia sottocutanea.
Le voci cominciarono lentamente, ma inesorabilmente, a circolare e l’anno successivo l’esploratore svedese Otto Nordenskjöld si recò presso la fattoria di Eberhardt per tagliare un pezzo della pelle dell’animale e spedirla al Museo di Uppsala. Nel 1897 giunse un altro scienziato, il Dott. Franciso Moreno del Museo di La Plata, che prelevò ciò che rimaneva del reperto per conservarlo nel proprio Istituto, dove fu successivamente identificato come appartenente a un bradipo terrestre della famiglia dei Milodonti.
Questo frammento così ben conservato e apparentemente recente, unito al fatto che le ossa degli animali della grotta furono ritrovate assieme a quelle di esseri umani, rievocò nella mente del famoso paleontologo Florentino Ameghino uno strano episodio che gli fu raccontato anni prima dall’amico argentino Ramón Lista, geografo e segretario di stato.
Nel 1870, mentre stava esplorando la zona di Santa Cruz nel sud della Patagonia, osservò assieme ai suoi compagni di spedizione uno strano animale che in seguito descrisse come avente l’aspetto di un pangolino ricoperto da una folta peluria rossastra. Furono sparati diversi colpi di fucile, che nonostante fossero andati a segno sembrarono non avere sortito alcun effetto, cosicché la singolare creatura riuscì a fuggire indisturbata tra la fitta vegetazione circostante.
Ameghino conosceva molto bene le leggende degli indios Tehuelche della Patagonia che parlavano di un animale peloso grande quanto un bue e dotato di formidabili artigli, contro il quale le frecce non avevano effetto, ma da rigoroso uomo di scienza non aveva mai dato troppo credito a quelle notizie così bizzarre.
Ora però le cose erano improvvisamente cambiate: oltre al fatto che la caverna di Ultima Esperanza dimostrava che uomini e milodonti avevano convissuto in tempi recenti, la scoperta che questi ultimi possedevano una vera e propria armatura sottocutanea rendeva l’aspetto più fantastico delle leggende dei nativi, quello secondo cui esistevano animali immuni a lance e frecce, qualcosa di apparentemente logico.
Lo zoologo non perse tempo e pubblicò un articolo nel quale non esitava ad attribuire la pelle di Ultima Esperanza a un rappresentante contemporaneo dei milodonti, che in onore dell’amico Ramón Lista (che nel frattempo aveva perso la vita per mano degli indios Tobes mentre esplorava la regione di Pilcomayo), battezzò Neomilodon listai:
Il mondo accademico restò tuttavia più prudente, infatti l’aspetto apparentemente così recente del frammento di pelle, poteva essere spiegato da particolari condizioni favorevoli alla conservazione riconducibili alla grotta nella quale era stato scoperto. Da quel momento i vari studiosi che si succedettero negli scavi riportarono conclusioni contrastanti, dichiarando di volta in volta datazioni sempre differenti.
Così mentre si scatenò una disputa tra chi riteneva i resti di milodonte vecchi di decine di migliaia di anni e chi ipotizzava invece che questi animali fossero addirittura stati allevati in cattività dagli esseri umani, furono organizzate le prime spedizioni sul campo alla ricerca di bradipi terrestri sopravvissuti.
La più famosa tra queste fu finanziata dal Daily Express, ma il suo leader, Hesketh H. Prichard, ritornò in patria senza avere ottenuto risultati degni di nota, dichiarando che tutta la faccenda non era altro che un imbroglio.
Un presunto avvistamento si registrò nel 1932, anno in cui il Dott. Thomas Gann guidò una spedizione in quello che ai tempi era chiamato Honduras Britannico (moderno Belize), per conto del British Museum. Mentre si trovava presso una zona paludosa, scorse per un breve lasso di tempo un animale che descrisse come un possibile bradipo terrestre. Secondo il testimone la bestia trottava a quattro zampe come una scimmia antropomorfa, possedeva un grosso corpo ricoperto da pelame nero e sulla sua testa era presente una sorta di criniera bianca. È a ogni modo più lecito ritenere, per il sottoscritto, che l’animale osservato da Gann non fosse altro che un orso andino lontano dal suo classico areale di distribuzione (3). Questi orsi sudamericani infatti, sono generalmente caratterizzati da una chiazza di peli bianchi sul muso che contrasta con la colorazione nera del resto del corpo.
L’interesse per i milodonti sopravvissuti cessò nel 1976, anno in cui il ricercatore inglese Earl Saxon riuscì a chiarire una volta per tutte le apparenti incongruenze tra la datazione al radiocarbonio, che voleva i frammenti di pelle vecchi di almeno 12.000 anni, e la stratigrafia della grotta di Ultima Esperanza, che mostrava in apparenza una coesistenza tra milodonti ed esseri umani.
Il verdetto finale stabiliva infatti che la presenza di uomini e bradipi terrestri all’interno della grotta si era così alternata nel corso dei secoli: i primi vi avevano vissuto circa seimila anni fa, mentre i secondi dai 13.000 ai 12.000 anni fa. Saxon fece anche notare la possibilità che i bradipi terrestri fossero ritornati a utilizzare la grotta circa 2.500 anni fa, ma quest'ultima osservazione non fu ritenuta attendibile dal resto degli studiosi.
Da allora dovettero passare 17 anni prima che, piuttosto inaspettatamente, la possibile sopravvivenza di bradipi terrestri tornasse a essere affrontata da un esponente del mondo accademico.
L’ornitologo americano David C. Oren, dopo essersi laureato ad Harvard, entrò nello staff del Museo Emilio Goeldi (Brasile) per conto del quale opera sul campo nello stato di Amazonas dal 1977.
Lavorando a stretto contatto con la popolazione indigena non aveva potuto fare a meno di raccogliere un gran numero di presunte testimonianze e leggende riguardanti creature misteriose facente parti del folklore locale. Tra queste però, una in particolare attirò notevolmente la sua attenzione, si trattava del cosiddetto mapinguari, parola dall’etimologia incerta con la quale sembrano essere descritte diverse tipologie di esseri misteriosi, prevalentemente di aspetto scimmiesco.
Ad accendere il suo interesse verso una sua possibile identità zoologica, furono i rapporti collezionati dallo storico David Gueiros Vieira, che era riuscito a risalire a presunti avvistamenti diretti da parte di alcuni minatori, le cui descrizioni si avvicinavano molto di più a quelle di un bradipo terrestre piuttosto che a quelle di un primate.
Oren avviò così un’inchiesta personale sull’argomento, esplorando le regioni in cui si parlava del mapinguari e intervistando le persone che avevano dichiarato di averne visto uno in carne e ossa. I primi risultati furono pubblicati nel 1993 sulle pagine del bollettino ufficiale del Museo Emilio Goeldi e le conclusioni cui giunse, pur se con le dovute cautele, apparivano sorprendenti. Stando all’autore infatti, la misteriosa creatura poteva essere una piccola specie di milodonte adattatasi a vivere nelle foreste.
Queste conclusioni si basavano su paragoni effettuati tra le caratteristiche conosciute dei bradipi terrestri e le informazioni da lui raccolte, che possono essere così schematizzate:
- dimensioni: secondo i testimoni la lunghezza del mapinguari si aggira attorno ai 180 cm, dimensione compatibile con quella di un bradipo terrestre di media grandezza;
- pelliccia: tutte le descrizioni del mapinguari parlano di un animale dal colore rossiccio. I diversi peli mummificati delle varie specie di bradipi terrestri conosciuti sono rossicci;
- armatura: i testimoni dicono che il mapinguari è immune a frecce e a lance e che l’unico modo per ferirlo è colpirlo all’addome. I milodonti avevano una pelle protetta da ossicoli su tutta la zona delle spalle, schiena e fianchi e costole molto robuste e spesse, poco distanziate, che proteggevano il torace. L’unica zona priva di protezioni naturali era quella dell’addome;
- piedi: i testimoni dicono che il mapinguari cammina tenendo i piedi rivolti all’indietro, i bradipi terrestri deambulavano tenendo gli artigli rivolti all’indietro;
- escrementi: le feci del mapinguari sarebbero simili a quelle del cavallo. Le feci mummificate di alcuni bradipi terrestri sono simili a quelle del cavallo.
Al primo articolo ne seguì un secondo molto più particolareggiato, contenente la sintesi delle descrizioni unanimi di sette cacciatori, che avevano dichiarato di avere abbattuto uno di questi animali in zone molto distanti l’una dall’altra nell’Amazzonia brasiliana.
Secondo questi testimoni l’essere era alto circa due metri in posizione eretta, emanava un odore nauseabondo (definito da alcuni dei cacciatori come il peggiore che avessero mai percepito) e possedeva un corpo pesante e molto massiccio.
Gli artigli delle zampe erano simili per conformazione a quelli del formichiere gigante, ma grandi quanto quelli dell’armadillo gigante (Priodontes maximus). Il pelame era ispido e variava a seconda dei vari testimoni dal rossiccio, al nero, al brunastro. Il muso era simile a quello di un asino o di un cavallo, ma più corto e dotato di quattro grandi canini. L’animale era in grado di deambulare sia a quattro zampe che sulle sole zampe posteriori, ma in quest’ultima postura i movimenti risultavano impacciati. Le impronte impresse sul terreno avevano un aspetto arrotondato quando l’animale si muoveva a quattro zampe, mentre erano simili a quelle umane quando stava in posizione eretta, presentando però soltanto quattro dita invece di cinque.
Sei cacciatori dissero di avere abbattuto l’animale caricando i fucili con proiettili speciali di piombo a carica piena e mirando alla testa, dato che i proiettili normali rivolti contro altre parti del corpo avevano dato scarsi risultati. Il settimo cacciatore scaricò un revolver calibro 38 contro il torace della bestia. Tre di loro prelevarono dei resti (peli, artigli e una zampa), ma se ne disfecero ben presto per via dell’odore disgustoso che emanavano.
Oltre a contenere maggiori informazioni morfologiche sul misterioso animale, il secondo articolo di Oren sull’argomento proponeva anche una nuova ipotesi attributiva. Infatti se in precedenza il mapinguari era stato da lui accostato a un milodonte, i nuovi elementi circa i quattro grandi canini e la locomozione, tipici dei megalonichidi, facevano ricadere all’interno di questa famiglia di bradipi terrestri il più probabile candidato.
Sicuramente gli elementi sino ad ora in nostro possesso sono indubbiamente affascinanti, tuttavia nonostante l’immensità della foresta amazzonica, esistono non pochi problemi che rendono alquanto improbabile la sopravvivenza attuale di bradipi terrestri, seppure di dimensioni “ridotte”.
Innanzitutto un fondamentale particolare anatomico: tutti i cacciatori interpellati dissero che la coda del mapinguari era tozza e corta. Come precedentemente accennato, sappiamo però che per questioni biomeccaniche i bradipi terrestri potevano assumere una postura eretta soltanto grazie all’appoggio sul terreno delle loro robuste code, tanto da essere stati definiti come veri e propri “tripodi”. Risulta quindi davvero molto difficile immaginare una forma di bradipo terrestre di medie dimensioni priva di questa essenziale caratteristica indispensabile per assumere una postura eretta.
Altri problemi sono invece di natura prettamente biologica ed ecologica e furono messi in evidenza da Marc van Roosmalen (che pure non si tira mai indietro nel difendere l'esistenza di animali improbabili) durante uno scambio di opinioni. Avevo infatti appreso che nel 1990 lo zoologo olandese sentì raccontare da alcuni abitanti di un piccolo villaggio presso le rive del Rio Purus (Amazzonia brasiliana), che le abitazioni erano state smantellate e costruite sulla riva opposta per via del fatto che orme di mapinguari erano state trovate nelle vicinanze (secondo le leggende questo animale evita l’acqua). Ero quindi molto curioso di conoscere la sua opinione in merito, che si rivelò essere abbastanza scettica.
I bradipi terrestri infatti erano particolarmente adattati alla vita nelle grandi pianure e considerando anche il loro ridottissimo volume cerebrale sarebbero difficilmente stati in grado, anche se sottoposti a un’enorme pressione selettiva, di adattarsi ecologicamente a un habitat e a un ecosistema totalmente differenti, come quelli delle foreste tropicali pluviali dell’Amazzonia. In queste zone infatti la maggior parte delle piante di terraferma sono cariche di sostanze secondarie altamente tossiche, utili per preservarne il fogliame dall’azione degli erbivori, tanto che gli unici mammiferi altamente “fogliferi” sono distribuiti lungo le grandi pianure alluvionali caratterizzate da foreste sommerse. Un bradipo gigante non potrebbe però sopravvivere in queste zone durante la stagione delle piogge, in quanto inadatto ad arrampicarsi sulle cime degli alberi.
Escludendo quindi la possibilità di bradipi terrestri sopravissuti, esistono ipotesi alternative per spiegare gli avvistamenti e le uccisioni della leggendaria creatura?
Il quadro appare in realtà inestricabile per una serie di problemi. Prima di tutto il mapinguari descritto da Oren e dai suoi presunti testimoni, è molto diverso da quello dipinto dal folklore nativo. Le storie parlano in genere di una sorta di gigante simile a una scimmia, spesso descritto con un solo occhio e una bocca posta sul ventre. Ipotizzando che Oren sia nel giusto e che questo animale esista realmente, questi tratti surreali avrebbero però poco significato. Le storie riguardanti animali molto rari da parte delle popolazioni locali, sono spesso arricchite da aspetti sovrannaturali. Il punto sta però nel capire quanto la tradizione orale possa avere influito sulle descrizioni dei testimoni.
Se ad esempio si prende alla lettera quanto riportato da Oren, anche il più scettico tra gli zoologi non potrà non ammettere che la somiglianza tra il mapinguari e un bradipo terrestre, se si esclude la brevità della coda, è davvero impressionante. Resta però da vedere quanto i tratti descritti dai testimoni sono realmente oggettivi. Prendiamo ad esempio il particolare dei piedi rivolti all'indietro. In una visione zoologica ciò può essere attribuito alla particolare deambulazione di un bradipo terrestre, ma se consideriamo questo aspetto dal punto di vista del folklore, scopriremo che in tutto il mondo, una moltitudine di creature che fanno parte delle leggende delle più disparate culture, dagli abominevoli uomini delle nevi, agli gnomi, ai folletti, sono descritte con i piedi rivolti all'indietro.
Non è quindi un'impresa facile comprendere se i mapinguari uccisi dai testimoni sono stati descritti così perché effettivamente erano così, o perché dovevano essere così in base alla loro visione del mondo di cacciatori nativi.
Non va inoltre dimenticato un altro aspetto importante: al contrario di quanto in molti in occidente siamo portati a pensare, le leggende e le tradizioni delle diverse culture non sono monoliti granitici immutati e immutabili dalla notte dei tempi. Né esistono culture totalmente impermeabili agli scambi di informazioni con altre culture.
Prendiamo ad esempio quanto riportato dall'etnozoologo Glenn Shepard in un suo studio sugli indigeni Machiguenga del Perù. Questi segnalarono l'esistenza di un animale chiamato segamai, da loro molto temuto. Della taglia di una mucca, può deambulare sia su quattro zampe che in maniera bipede, possiede un muso somigliante a quello di un formichiere, vive in caverne di foreste remote ed è resistente alle armi. Shepard ha accostato queste descrizioni al mapinguari di Oren, riportando però un aneddoto che deve fare riflettere.
Uno studente Machiguenga, vide infatti nel museo di storia naturale di Lima, la ricostruzione di un bradipo terrestre e quando tornò presso la sua comunità diede questa notizia:
Shepard definisce la cosa come una "intrigante coincidenza", ed indubbiamente lo è, ma le chiavi di lettura possono essere ambivalenti:
- lo studente identificò il bradipo terrestre con un segamai perché quest'ultimo è effettivamente un bradipo terrestre
- lo studente vide un animale molto simile al segamai delle leggende e portò la notizia alla sua comunità, che da quel momento ha integrato nelle sue descrizioni della creatura, aspetti zoologi a quelli folkloristici
Diversi critici riferirono ad Oren che l'animale da lui descritto poteva essere riconducibile a un orso, ma anche in questo caso il problema, piuttosto che semplificarsi, si complica.
Abbiamo visto come il presunto bradipo terrestre segnalato da Gann era probabilmente un orso andino lontano dal suo areale di distribuzione noto, ma questi animali, distribuiti lungo le Ande, non sono mai stati segnalati in Brasile, dove l'ultimo orso conosciuto, il Pararctotherium brasiliense, si estinse circa 10.000 anni fa a causa dei cambiamenti climatici.
Oren, che in seguito fu trasferito in Brasilia per occuparsi di altri incarichi, non ha più continuato le sue indagini e al momento la "storia naturale" del mapignuari si conclude con tanti interrogativi e pochi fatti concreti.
(1) Questa parentela è tuttora soggetto di dibattito. Qualche anno fa è stata suggerita una parentela con l’altra famiglia dell’ordine dei Pilosi (il sottordine dei vermilingua, ovvero sia i formichieri propriamente detti). Al momento è invece ipotizzato uno stretto legame tra i bradipi terrestri (Megateridi, Megalodontidi etc) e i bradipi didattili (Megalonichidi). La posizione dei bradipi tridattili (Bradipodidi) all’interno dell’ordine Pilosi è ancora lungi dall’essere risolta.
(2) Mylodontidae, Scelidotheridae, Megatheriidae e Megalonychidae.
(3) Si tratterebbe comunque di un episodio degno di nota dal momento che questo animale non è mai stato avvistato a nord di Panama.
AA. VV. (1993-1996), Ground Sloth Survival Proposed Anew. The ISC Newsletter Vol. 12, No. 1.
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